Aprica e Mortirolo
Dopo che l'anno scorso ho scalato la montagna sacra del ciclismo, il temibile Mortirolo, dal versante bresciano, quest'anno mi ero ripromesso di affrontarlo dalla Valtellina, dal lato più duro. Nel momento di organizzare l'uscita, però, si presenta un problema logistico: arrivare a Mazzo, all'imbocco della salita, in macchina è un viaggio molto lungo, circa due ore e mezza, quindi mi ritroverei a passare più tempo in automobile che in bici. D'altra parte, per accorciare il viaggio, bisognerebbe lasciare l'auto a Edolo, però, piccolo particolare, per arrivare a Mazzo c'è di mezzo l'Aprica. Mi scervello per tutta settimana ma alla fine mi rassegno e decido di partire da Edolo anche se, il timore di non riuscire a farcela è grande. Ma ormai la decisione è presa e mercoledì 19 agosto alle 6.30 mi metto in macchina in direzione Edolo. Alle 8.20 ho già posteggiato e sono pronto ad iniziare a pedalare. La temperatura è frizzante, come testimonia lo sbuffo di condensa che evidenzia il mio respiro, ma si inizia subito a salire quindi ci si riscalda velocemente. Per raggiungere l'Aprica evito la statale, stretta e molto trafficata, e percorro una strada secondaria che corre parallela alla principale e che sale a strappi: brevi tratti con pendenze importanti e poi qualche pezzo in piano se non addirittura in discesa. Superato Santicolo attraverso il borgo di Corteno a cui è stato aggiunto il nome Golgi in onore del suo illustre cittadino, Camillo Golgi, premio nobel per la medicina all'inizio del ventesimo secolo. Dopo circa una decina di chilometri, si rientra sulla statale per poche centinaia di metri per poi immettersi in una ciclabile sterrata che corre a fianco del torrente Ogliolo, sul lato opposto rispetto alla strada principale. A questo punto si comincia davvero a far fatica perchè si alternano cementate ripide a tratti di sterrato reso fangoso dalle piogge della notte. Dopo 15 chilometri dalla partenza arrivo ai quasi 1200 metri del passo dell'Aprica, nota località sciistica che, nel pieno del periodo delle vacanze estive, è molto affollata. La via centrale, su cui si affacciano numerosi negozi è trafficatissima: frotte di turisti sono seduti ai tavolini dei bar gustandosi la colazione. Io però sono di fretta, un morso ad una barretta e mi tuffo nella larga e comoda discesa; non mi sono messo la mantellina e nei lunghi tratti all'ombra il freddo si fa sentire. Finalmente arrivo al bivio e tengo la destra in direzione di Tirano. Adesso ci sono da affrontare circa 15 chilometri pressochè pianeggianti, di cui un buon tratto su una bellissima ciclabile lungo l'Adda, affollata da pedoni e ciclisti. Dopo aver superato Tirano e Tovo Sant'Agata, arrivo finalmente a Mazzo, dopo aver già percorso più di 40 chilometri e 800 metri di dislivello. Mi assale ancora il dubbio di non riuscire a farcela ma, a questo punto, non ho alternative, non posso più tornare indietro: mi fermo un attimo a riempire la borraccia e a dare un altro morso alla barretta e non posso far altro che partire, lanciando la sfida al terribile mostro che risponde al nome di Mortirolo. I numeri fanno paura: 12 chilometri e 1300 metri di dislivello, dai 550 di Mazzo ai 1852 del passo della Foppa, o Mortirolo. Non appena si inizia a salire, si capisce subito che sono in un tempio sacro del ciclismo: l'asfalto e i muretti laterali sono invasi da scritte di incoraggiamento per campioni vecchi e nuovi; naturalmente il Pirata Marco Pantani la fa da padrone ma leggo i nomi di Nibali, Scarponi, Contador e addirittura Gianni Bugno che qui passò in maglia rosa nel trionfale giro del 1990 - quando però si era saliti da Monno - mentre nel 1991 non riuscì nell'impresa di sfilare la maglia di leader a Franco Chioccioli, soprannominato Coppino per l'incredibile somiglianza fisica con il Campionissimo. La salita è subito tostissima, come me l'aspettavo: le pendenze sono sempre in doppia cifra e alcune rampe non sono distanti dal 20%. Io con la mia Mtb riesco bene o male a salire ma mi chiedo come sia possibile farlo con i rapporti di una bici da corsa. Dopo circa 3 chilometri si trova sulla destra una chiesetta e per qualche decina di metri la strada sembra spianare - è solo un'impressione, si tratta solo di una pendenza meno impegnativa - ma subito dopo ti presenta un conto salatissimo con una rampa praticamente verticale. Dal terzo al nono chilometro è il tratto più duro e sei chilometri a quelle pendenze sono davvero infiniti. La numerazione dei tornanti a scalare arrivando in vetta non aiuta dal punto di vista psicologico: quando sei già al lumicino delle energie e leggi che mancano 20 tornanti per arrivare al passo è dura. Pian piano, una pedalata alla volta vado avanti, superato da qualche ciclista con la bici da strada in piedi sui pedali. La cosa positiva, probabilmente l'unica, è che si è quasi sempre nel bosco quindi almeno non c'è il sole di agosto a complicare ancora di più la situazione. Quando sto già salendo da più di un'ora, dopo quasi 8 chilometri in prossimità dell'undicesimo tornante fa la sua apparizione Marco Pantani: la stele che lo ricorda è stata posata nel punto in cui scattò nel 1994 e si fece conoscere a tutti gli appassionati di ciclismo. A testimonianza del grande amore della gente per questo grande e sfortunato campione, sotto il monumento ci sono numerosi messaggi scritti a mano e anche tante bandane da pirata, il suo simbolo quando dominava per le salite di tutta Europa. Naturalmente mi fermo, oltre che per rendere il doveroso omaggio a un grandissimo campione, anche per prendere un po' di fiato perchè sto facendo veramente fatica. Fatte le foto di rito cerco un po' di incoraggiamento in un ciclista che sta scendendo e a cui chiedo se il peggio non sia passato: l'espressione sul suo volto mi fa capire che non è proprio così e che ci sarà ancora parecchio da soffrire. Quando finalmente arrivo al nono chilometro, mi convinco che adesso sarà meno dura ma, purtroppo non è così. Forse le pendenze calano un po' ma la fatica accumulata fino a quel momento si fa sentire e nel serbatoio sono rimaste davvero poche energie. Ormai ogni pedalata costa grande sforzo e tutte le scuse sono buone per fermarsi un attimo. In una di queste soste, nei pressi di una fontana, un motociclista mi si avvicina e mi fa i complimenti dicendomi che quando vede noi ciclisti salire fin quassù gli viene la pelle d'oca. Questo incoraggiamento mi scalda il cuore e mi dà la forza per affrontare gli ultimi chilometri. Siccome il rifugio Antonioli, dove ho intenzione di pranzare, è 500 metri prima del passo, il programma sarebbe di arrivare in cima, fare qualche foto e poi tornare indietro ma quando vedo il cartello del rifugio non riesco a non entrarci: pazienza per il tempo di scalata che tanto era già sopra le due ore, ho proprio bisogno di fermarmi. I pizzoccheri e il riso ai mirtilli che mi serve Lino del rifugio Antonioli sono ottimi e dopo essermi riposato e rifocillato sono pronto per gli ultimi 500 metri di salita. Arrivato in vetta tanti ciclisti aspettano di potersi fare una foto davanti al cippo che indica la cima del Mortirolo perchè un'impresa così deve essere ricordata per sempre. Adesso però c'è solo discesa, prima fino a Monno e poi fino a Edolo dove ho lasciato la macchina. Nel viaggio in auto verso casa ho tempo per assaporare la soddisfazione per aver vinto la sfida con me stesso avendo domato il Mortirolo dal suo versante più temibile dopo, oltretutto, aver superato anche l'Aprica.
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